Uguali per tutti sono i ricordi
solo la rappresentazione di essi cambia.
Non infinite sono,
hanno un numero limitato
le esperienze degli uomini.
Tra le verdi spighe dei campi vagava, volava sopra di esse, come in un sogno. Lontano sentiva parole, le sue, ad accompagnare il suo essere solo. Un mondo interno esteriorizzava, rarefatto. Distaccato lo viveva e lo lasciava libero nell’aria, come una variopinta bolla di sapone, che leggera si allontanava e che pure lui comprendeva. Di quell’altro prendeva a momentaneo prestito le case e le strade. Si appropriava però della montagna e del colore del mare, tenuemente illuminato dal calore del sole. Dopo mezze giornate tornava. Triste, a piedi nudi con le braccia legate alle ginocchia, la testa appoggiate ad esse, stava seduto sul gradino della soglia di casa. Gli occhi aveva ancora perduti. Guardava la strada. Gli altri erano tutti fratelli e facevano combutta tra loro. Il suo gracile corpo aveva dovuto lottare per avere un suo posto. Solo una volta si era umiliato.
Improvviso, avanti negli anni, aveva preso coscienza di esser vissuto per un intero anno senza madre e con il padre lontano. Era tornato da scuola e gli avevano dato una fetta di pane con l’olio ed il sale. Aveva creduto che dovessero ancora pranzare. Li ha visti poi madre e figlio, congiunti di suo padre, mangiare in maniera furtiva una fetta di carne. Non ci aveva mai fatto caso, qualcuno in seguito gli raccontò che dormiva in un sottoscala su una cassapanca. Solo “l’asiatica” gli aveva concesso un letto, questo sì ricordava.
Si riempiva la casa di gente. Lei stava lì, immobile, sul letto in mezzo alla stanza. Gli occhi chiusi. Non era servita la coramina, portata d’urgenza. Non sarebbe servita mai per le sue apoplessie. Erano la sola cura che ella esigeva da una società che l’aveva fatta sentire esclusa. Nell’angoscia egli la stava a guardare.
Era andato accompagnato dal figlio, presso il quale in quel periodo viveva, a pretendere la restituzione dell’atto di donazione del podere che le aveva precedentemente assegnato, gettando nello scompiglio la figlia e nel dolore per l’ingiustizia. Era roba comprata con il lavoro e i risparmi di sua madre. Poi aveva deciso di stare con loro. Aveva apprezzato la loro educazione ed onestà. Con lui era tornata anche la scrittura. Così era potuto ritornare in quella casa in piena campagna e alzarsi al mattino presto, dopo un temporale, a cogliere i fichi d’india, quasi senza spine, l’acquazzone le aveva lavate via. Quelli più verdi, non ancora completamente maturi, come faceva la sua momma ‘Ngiuluzza, quando per lui bambino li sbucciava e gli offriva quel fresco dolce mattutino come prima colazione.
Per anni tutte le volte che lo incontrava per strada con un fischio, come se fosse un cane, gli ingiungeva di tornare a casa. Ancora quel suono ondulatorio gli risuonava nelle orecchie. Mai gliene fece una colpa di questo, si mortificava soltanto per l’inspiegabilità. Neanche di altro, neanche quando ai primi anni di università gli aveva dato dell’asino. Lo aveva ferito ed il ricordo lo feriva ancora, visto i suoi brillanti trascorsi scolastici ed in seguito gli esiti dell’esercizio della sua professione. Solo una volta lo aveva incolpato, schierato in difesa della madre.
Ai tempi del liceo, mandava gli amici per farlo uscire, gli stessi che ora lo cercavano e prima lo avevano avversato . Sembrava che vedessero in lui qualcosa di diverso e che si sentissero respinti. E qualcosa di diverso in effetti c’era. Sempre egli si innamorava e sognava meravigliosi volti di donna, loro parlavano invece con supponenza di conquiste. Quell’ atteggiamento, ora nel ricordo lo avvertiva irrispettoso, lo aveva fatto sentire emarginato e al contempo gli aveva creato quelle contraddizioni che a lungo non aveva saputo risolvere.
Sara, turbata dal suo sguardo teneramente profondo, gli aveva chiesto, quasi implorato :”per favore non guardarmi così”. Ricordava ancora la stanza dove stavano studiando ed il tavolo di vetro. Non aveva avuto lei il coraggio che a lui mancava. Aveva avuto timore dei commenti dei compagni di classe che avevano ammirazione per lui ma che lo vedevano come altro da loro.
Francesca stava dietro la porta, di tanto in tanto in apprensione per i suoi silenzi lo chiamava. Aveva molto bevuto. Neanche lei aveva avuto né gli aveva dato il coraggio, la cui assenza lo immobilizzava.
Per anni in università era andato avanti così, poi era giunta lei a sollevarlo dalla solitudine, ma ad aggiungere i propri ai suoi problemi. Di lui ella non aveva più potuto fare a meno, ma allo stesso tempo sembrava, forse proprio per questo, che dovesse in qualche modo punirlo. Di qualcosa che non lui, ma altri avevano commesso o che egli lo avesse, prima di conoscerla. Questo aveva sofferto in tutti quegli anni.
Aveva creduto grazie a lei di poterlo fare, ma non era riuscito a liberarsi della solitudine che aveva costruito e sperimentato nel suo peregrinare inconscio di bambino. Non sapeva più sentire le sue parole ed esteriorizzare il mondo come faceva allora.
Ora non poteva più vagare e volare come in un sogno. Là dove crescevano le spighe non c’erano più campi.
25 agosto 2022
Ciro Gallo