Me la era portata dietro la vetrinetta, a casa a Milano, unico pezzo di mobilio di quella materna. Il solo. È rimasto là con la coda rotta il cavallo col cavaliere, soprannominato Garibaldi, sull’orologio, a me destinato, che scandiva le ore con un suono familiare e rassicurante nel rimbombo impaurente della sala di momma Ngiuluzza.
Ora era piena di documenti, fotografie, scartoffie varie alla rinfusa e vecchi telefonini. Spaesate stavano 3 piccole anfore e ciotole di età romana, in disparte in un angolo. Niente di quello che c’era stato. Oggetti di una famiglia non ricca. Posate, piatti, un servizio di bicchieri con disegni di fiori con il boccale, comprato a svendita da una famiglia che emigrava, due bottiglie raffiguranti un uomo ed una donna, per tutti il re e la regina.
Superbe stavano, nello scaffale inferiore, nei loro colori, artigianali, dipinte a mano, le pupe di zucchero che potevo solo ammirare. Ornavano di sé e specchiavano il vetro delle ante. Le portava ogni anno mia nonna per i morti. In Sicilia è il due novembre il giorno in cui i bambini ricevono regali e soprattuto dolci. Due pupe, messe una da un lato e una dall’altro. Le guardavo e sentivo il loro sapore. Mi era però consentito solo immaginare lo zucchero sciolto sulla lingua. “Non si toccano”, questo era l’imperativo. E la restarono intoccate, immutate, splendenti nei loro colori. Le appetivo, solo quello. L’imperativo restava. Chissà per quale motivo. Forse estetico, forse perché bisognava imparare ad aspettare. Una rinuncia momentanea per un poi.
E passò tutto novembre e dicembre ed io le guardavo e loro là, belle ed indifferenti. Resistevano alla mia voglia. E fu così anche per gennaio, febbraio e marzo. Sempre là, sempre i miei occhi desideranti. Finché un mattino d’aprile di una calda primavera, entrato in sala e guardato la vetrinetta non le vidi, non c’erano più, le pupe erano scomparse. O meglio, quelle che erano state due statue dolci di misti colori erano diventate due mucchietti di zucchero informi, ormai immangiabili. Si erano sciolte, senza uno scopo, senza il dolce infantile dello zucchero sul palato, per effetto del caldo e dell’imperativo.
Amaro è rimasto il ricordo.
25 ottobre 2022
Ciro Gallo