Giufà ed il pensiero semplice

23 Aprile 2021

Giufà  era  giunto così. Inaspettatamente la mamma era rimasta incinta. Si diceva che fosse stato un colpo di vento, di quelli che, tiepidi di primavera, lambiscono il viso ed il corpo. La verità è che Giufà nacque da un desiderio.

A lungo la madre lo aveva desiderato, come senso di un suo completamento, la cui mancanza  la faceva sentire quanto mai sola. Scopriva qualche lacrima rigare le guance al pensiero di un figlio, nei giorni in cui al fiume stava china a lavare i panni altrui. A volte, durante la mietitura, al tramonto, quando l’afa del giorno era calata ed il sudore della fatica asciugato, sentiva dentro di sé qualcosa espandersi, ed era invasa  da un calore soave, come un sonno leggero che la portava lontano a fantasticare le cure ed i giochi che le mamme fanno con i piccoli. Allora il desiderio diventava più forte, quasi pressante, forse persino doloroso. E fu in uno di questi momenti che sentì,  improvviso, qualcosa muoversi repentinamente nel suo grembo. Capì. Fu felice. Ed attese. Sapeva che questo suo momento non era stato esclusivo  per lei, che altre donne, allo stesso tempo, per lo stesso desiderio, sarebbero diventate madri di figli che, identici tra loro e con la stessa sorte, si sarebbero chiamati Giufà, Jack , Mattis

Speciali sono i figli del desiderio. Speciali  perché non destinati  a grandi avventure, a diventare eroi ma uomini semplici.

Nacque Giufà un pomeriggio di fine estate, un giorno in cui il sole era mite e le foglie degli alberi già col loro colore si preparavano all’autunno e poi, assolto il loro compito, sarebbero volate via e disperse nel cielo nei giorni di vento. L’accarezzava la mamma e lo vezzeggiava con mille nomignoli, con giochi di sillabe e parole. Uno le era  sembrato più adatto perché una invenzione, una abbreviazione di Giuseppe fatto dal desiderio. Decise:” lo chiamerò Giufà del desiderio”.

Crebbe Giufà nell’affetto della madre e nella totale normalità. Fisicamente  era uguale a tutti gli altri bambini, nati da una madre e da un padre naturali. Pettinato e pulito la madre, come tutte le madri, lo sedeva sull’uscio mentre ella lavorava o sfaccendava in casa. Passarono i giorni,  passarono gli anni, e Giufà come sempre stava seduto sull’uscio, tutto lindo, i capelli scuri pettinati con un boccolo in mezzo tenuto fermo da una forcina, la camicina bianca ed i calzoni corti tenuti su da bretelle di stoffa.

Si appisolava  nei pomeriggi d’estate sotto l’albero di pesche, cresciuto con lui accanto alla casa. Di tanto in tanto una folata di vento staccava  una pesca che a volte cadeva  sulle sue gambe  e lo svegliava. Egli guardava meravigliato il frutto e poi l’albero ed il cielo e grato esclamava: “grazie”. Pensava, come gli avevano raccontato, che  questa fosse la manna che arrivava dal cielo. Così fu che  la mamma, un po ‘ per stupire e per fare contento il figlio, si ingegnò di fargli cadere,  tutte le volte che si appisolava, ora un fico, ora una noce, ora una mela, ora una prugna. Felice Giufà li mangiava.

Gioviale ed ubbidiente conduceva la sua vita, finché un giorno qualcosa lo colpì. Sentiva una confusione in testa, un affollamento,  un cozzar di qualcosa contro qualcos’altro. Scoprì. Erano i pensieri. Diversi pensieri, alcuni complessi altri semplici, con i primi che volevano sopraffare i secondi. Restò perplesso,  quasi sconvolto al vedere che nella sua mente ci fosse qualcosa di così contrastante. Buono per natura, i figli del desiderio non possono che essere buoni, non amò, da subito, i pensieri complessi con la loro enigmatica prepotenza e sopraffazione. Scelse i pensieri semplici che sentiva docili ed innocui. Con essi decise di condurre  la propria vita. Paragonava i pensieri complessi al portar le scarpe e quelli semplici ai piedi nudi. Decise quindi di andar scalzo. Stretta gli stava la scuola, non tanto essa, quanto la costrizione dello stare chiuso per ore in una stanza ad imparare numeri, calcoli sempre più complessi e per giunta con le scarpe ai piedi. “A cosa serviva”? Spesso ora,  con i piedi liberi, marinava la scuola e girava senza meta  per le strade e per i campi. A volte si metteva a sedere e spiava le formiche che, indaffarate, si muovevano frenetiche, altre volte, sdraiato in mezzo alle spighe si perdeva nel cielo.  Seguiva fino a che visibile  il volo degli uccelli e quando poteva saliva sugli alberi a guardare i loro nidi. Aveva così acquisito innumerevoli amici tra gli animali. Ora non sentiva più il bisogno di una sorellina. Con loro faceva lunghi discorsi semplici. Chiedeva loro se avessero mangiato, dove abitassero, se avessero un padre ed una madre o se fossero figli di una madre e di un desiderio. Cercava anche di fare piccoli commerci con loro. Come quella volta che volle vendere  alla lucertola  la tovaglia di lino che la madre gli aveva dato da portare al mercato. Lungo la strada, stanco, si fermò a riposare seduto su un muro di pietre. Da una fessura si affacciò una lucertolina. Muoveva  timida la testa dentro e fuori di essa.  Giufà la guardò affascinato da quella discrezione e le disse: “giardolina, come egli chiamava le lucertole, mi sei simpatica, e sai cosa ti dico, siccome io sono stanco e non voglio più stancarmi andando al mercato, se vuoi ti vendo questa bellissima tovaglia di lino bianco. Ti faccio un prezzo speciale.” La lucertola continuava a tirare dentro e fuori la testa e Giufà : “che fai ti vergogni? Dai esci fuori. Sei indecisa? Facciamo così, io te la lascio, tornerò domani, se non c’è più riterrò che tu l’abbia comprata, ti raccomando però fammi trovare i soldi, non vorrei che la mamma si arrabbiasse”. Posata la tovaglia sul muro, salutò la sua nuova amica e felice tornò a casa.

Ma nel mondo di Giufà non c’erano solo gli uomini con pensieri semplici, vivevano in maggioranza quelli dei pensieri complessi. Passò poco dopo uno di questi che, furtivo, guardandosi intorno per evitare un eventuale padrone, afferrò la tovaglia e messola in una sacca, si allontanò veloce.

Tornò l’indomani Giufà. Si avvicinò al muro  e fu contento di non trovare più la tovaglia. Si disse: ” le è piaciuta e l’ha comprata” e fu ancora più contento. Ma la delusione comparve sul suo volto  quando non vide traccia né dei soldi, né della lucertola. “Così non si fa” esclamò. Poi pensò :”magari è in ritardo, di certo ha avuto da fare”. Aspettò un pò , ma niente e nessuno appariva. Ancora pensò: ” senz’altro con questo afoso pomeriggio si è addormentata. Ore passarono, niente succedeva. Giufà aspettava. “Ora la sveglio ” disse e cominciò a battere con un sasso sulle pietre del muro. Nessuna risposta. “Sono sicuro che la casa è più in basso  e non sente. Sposterò le pietre fino alla sua tana, poi le metterò a posto”. Iniziò a smuovere le pietre, arrivò fino ai piedi del muro. E quale non fu la sua sorpresa quando da un buco spuntò una borsa da cui apparivano luccicanti, a riempirla zeppa, tanti marenghi d’oro. Estasiato Giufà gridò: ” lo sapevo che di te avrei potuto fidarmi, giardolina”. Prese la borsa e la portò a casa. Non si curò né volle sapere che cosa la madre abbia poi fatto dei soldi, anzi dimenticò totalmente tutto.

Continuò Giufà a frequentare  i suoi umili amici e a vivere, uomo dal pensiero semplice, tra uomini dal pensiero complesso.

 

(La favola potrebbe terminare a questo punto ma per chi pensa che non favole esistono, né lieto fine, può continuare a leggere)

Le cose non andarono sempre così. Ci sarebbe stato un momento in cui la sua propensione verso gli altri  e la sua fiducia sarebbero state, per fortuna solo per un momento, mortificate.

Servizievole, amava fare le cose più a puntino di come gliele avessero chieste. Quel giorno portava  al mare a lavare delle interiora di animali, perché poi la mamma le cucinasse. Tempo e cura ci mise, mai però le sembravano pulite. Perplesso continuava a guardare  quei pezzi di carne.  Improvvisamente vide, non  lontana nel mare, una barca con a bordo dei pescatori. Pensò che loro avrebbero potuto aiutarlo. Cominciò a chiamarli. Quelli dapprima  fecero finta di non udire, poi, di malavoglia, accostarono la barca alla riva. A quel punto Giufà riconoscente,  eccitato e felice   chiese loro : ” per favore son ben lavate queste frattaglie?”. Quelli, uomini dal pensiero complesso, non avendo la capacità di capire gli uomini dal pensiero semplice, lo guardarono  con aria di  scherno e superiorità e senza proferir  parola  andarono via.

Sorpreso da quella inaspettata reazione, confuso, raccattò il secchio con le interiora lavate e si avviò verso casa. Sentì  per un attimo che due mondi esistevano, quello suo, abitato da un numero ridotto di persone, e quello   della moltitudine, popolato da meschini e crudeli pensieri complessi. Per fortuna dimenticò presto.

23 Dicembre 2019

Ciro Gallo