Milano e Romanticismo: frammenti a margine

29 Luglio 2013

Quel che più  mi manca, vivendo in un altro paese, sono le stagioni. In particolare la transizione, che mi ricordo dolce, fra estate ed autunno. Non ho più la dimensione del cambiamento lento, dell’evoluzione, perché tornando, anche se spesso, a tratti discontinui, il cambiamento é più  evidente e più marcato. Così come l’invecchiare dei miei cari, che non é un evento continuo ma, ad un ritorno, un’inattesa stonatura.

E’ probabile che li abbia fabbricati io, dalla nostalgia di chi é partito, i ricordi dei momenti in cui mi accorgevo del passare delle stagioni. Una sera che, in attesa dal dentista, in uno dei grattacieli del centro (dalla sala principale si vede il cielo largo e le guglie del duomo ad altezza d’uomo) vedevo che l’aria aveva un colore più intenso, la luce era diversa. Sono memorie di un tempo altro, speranzoso, non ancora adulto, e quindi sono luminose e rarefatte.

Non é bella Milano, non é una città d’arte,  non é immediatamente accogliente o di facile apprezzamento. Ma é bella Milano, per me che l’ho lasciata, perché l’ho lasciata e così me ne sono innamorata. Trovo bellezza nei panorami più impensati: gli appartamenti anneriti, soggetti alle intemperie e al costante passare delle macchine, a lato del cavalcavia della G. Anche quando ero ragazzina e mio padre mi accompagnava a scuola, imbottigliati nel traffico e sempre in ritardo per la scuola io, per il lavoro lui, spiavo con delizia i giardini rialzati tra palazzo e palazzo. In uno di quegli appartamenti, qualcuno mi aveva detto, viveva De André quand’era giovane: ed allora lì ho fabbricato quel tenue e risoluto attaccamento alla cultura del mio paese. Ogni finestra racchiudeva un cantante, uno scrittore, un regista, un attore… Nei panorami di Milano vedo le parti migliori della cultura del mio paese. Della mia cultura del mio paese: “mia” non per rivendicazione nazionalista, ma “mia” come ammissione che questa cultura che proteggo e nutro, é una selezione biased di quegli artefatti che voglio io come parte della mia eredità.

Come potrei mai spiegare che mi si é stretta la gola nel vedere sorgere San Siro in lontananza, sullo sfondo di nuvoloni viola di un temporale nato dall’afa e che portava afa? Come spiegare che sì, nel vedere quella mostruosità architettonica, dalla finestra di un’autobus della Malpensa, mi commuovo? (‘Fa abbastanza caldow?’ Ci ha chiesto lì una sera di luglio Bruce Springsteen). Come spiegarlo a me stessa?

Mia madre é Milanese (di nascita) mio padre é Milanese (d’adozione). Milano é la Milano della loro storia, della loro gioventù e militanza. E’ anche la città del loro disappunto, della sperequazione, dell’ingiustizia, del nepotismo. Forse é la nostalgia oleografica per il passato più o meno recente che fa della mia spesso stupida e stupita generazione una generazione di infanti. Una nostalgia estetica che ho visto mescolata ad un rancore capriccioso (‘io la pensione dei miei genitori non la voglio pagare!’) e ad un’apatia mortifera. Ma anche una nostalgia pesante che vedo negli ‘occhi stanchi’ (ancora De André) di chi é andato altrove e sforza gli occhi per guardare dietro, per non perdere di vista cosa c’era prima, chi c’era prima. Prima che partissimo ma, prima ancora, prima di noi.

Ecco che mi dico “anche io sono Milanese”. Milanese, più Milanese dei Milanesi, più snob di tutti gli snob, perché Milanese esule e quindi Milanese diversa… La sola idea mi fa ridere, tanto é presuntuosa e naïve. Eppure é così – ho costruito per me stessa un’identità (che vedo nei palazzi di Milano, o San Siro, o nel cielo visto da una poltrona odontoiatrica) come mezzo di sopravvivenza, come legame alla bellezza, alla mia storia, alla mia propria lotta per uscire dall’ipossia di un’altra identità triste, di un paese stanco e sempre in crisi. Dalla “parabola in discesa”, come dice mia madre, degli ultimi quarant’anni dell’Italia.

Come i giardini tra i grattacieli, vedo qui piccoli santuari che dovremmo proteggere, dall’afa e poi dal freddo, dando acqua alle ortensie soffocate, all’erba quasi patetica, perché così speranzosa e fuori luogo.

Cocca di mamma