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Complimento

10 Agosto 2022

Ho richiesto il tuo

amore a subissare

il mio desiderio

di conoscenza

non sento se

risposta mi hai dato.

Ho creduto  io

potessi ancora

prestarmi i tuoi

pensieri

per costruire i miei,

le mie teorie.

Inatteso il percorso

è diverso  anche se

in un medesimo luogo.

Il vivere insieme

non è un tempo esteso

niente può derogare

al limite.

Insistere non è

per la necessità

della presenza

ma per il risveglio

del dubbio di noi

l’altro è una risposta

già attesa

solo un complimento .

10 Dicembre 2020

Ciro Gallo

Helplessness

24 Luglio 2022

Di te ho sognato

che con me nuotavi

in un mare buio

ed annegavi in una chiazza scura

ed io sorpreso dalla tua assenza

ti ho cercata

immergendomi nell’acqua

con angoscia ho fatto tutto ciò

ma non con la sofferenza

che sempre ti ho pagato

perché a me non è rimasta

nemmeno la forza del dolore

solo una rassegnazione.

E mi sono svegliato

certo che fosse un sogno,

triste, ma non di soprassalto

come dall’uscita da un incubo.

Ormai neanche gli incubi

mi sono consentiti

5 Aprile 2017

Ciro Gallo

Stare Insieme

6 Settembre 2021

Quando si é vecchi non bisognerebbe più stare insieme.

Cieco diventi, di una cecità selettiva.

Vedi solo l’altra nel suo modificarsi,

nella marcatura dei lineamenti,

nell’accentuazione dei difetti,

che prima ti sembravano vezzi.

Li sopportavi e li credevi attraenti.

Vedi la cute che si affloscia,

l’ombelico prominente.

Le gambe,  che ti ispiravano, ti sembrano

contenute in un sacco di iuta semivuoto,

la pelle lontana dai muscoli.

Il sesso sporadico e ripetitivo.

Tu invece  ti guardi  allo specchio e non ti vedi cambiato,

sei sempre lo stesso, giovane.

In preda all’illusione di Dorian Gray,

da te si libera una immagine schizofrenica

che lo specchio ti riflette e tu credi a questa bugia.

Non pensi che l’altra veda te

come tu continui a vedere lei.

Anche tu insaccato nel sacco grezzo dell’età.

Non stimolante,  noioso,

neanche più mezzo per un piacere sessuale.

Quando si é vecchi bisognerebbe smettere con questa finzione

ed allontanarsi solitari.

8 luglio 2018 ( scritto prima, modificato in questa data)

Ciro Gallo

Ansia

29 Luglio 2021

Quanto sotto è una personale elaborazione della genesi dell’ ansia.

E’ solo atavica paura della morte .

Agli albori della vita, davanti al domani, l’uomo ebbe paura: incertezza di perdere il presente, anche se difficile. E quando un “domani” gli creò problemi e modificò, anche per un solo attimo, l’ equilibrio a cui si era abituato, non importa se precario, ebbe conferma dei suoi timori: la mancanza di sostentamento, la non comprensione degli eventi d’intorno, la perdita dell’acquisito e quindi la morte. Nonostante poi raggiungesse un  equilibrio più avanzato, presentò sempre questo modo fisso di reazione, al ripresentarsi di un nuovo “domani” . Un condizionamento, una coazione a ripetere lo stesso meccanismo difensivo: l’Ansia. Generatrice di un ossimoro: la paura di morire e  il desiderio di morte per liberarsi dell’ angoscia ad essa associata. Meccanismo  entrato nella evoluzione  dell’ uomo, inserito nel DNA e quindi ereditabile. A nessuno, anche se in misura diversa, è consentito sfuggire a questo carattere genetico. A questa trasmissione. Da padre in figlio. Da me a te!

3 Febbraio 2013

Ciro Gallo

Aforisma

27 Luglio 2021

Le verità sono semplici.

Difficilissimo è farle capire.

4 ottobre 2021

Ciro Gallo

Giufà ed il pensiero semplice

23 Aprile 2021

Giufà  era  giunto così. Inaspettatamente la mamma era rimasta incinta. Si diceva che fosse stato un colpo di vento, di quelli che, tiepidi di primavera, lambiscono il viso ed il corpo. La verità è che Giufà nacque da un desiderio.

A lungo la madre lo aveva desiderato, come senso di un suo completamento, la cui mancanza  la faceva sentire quanto mai sola. Scopriva qualche lacrima rigare le guance al pensiero di un figlio, nei giorni in cui al fiume stava china a lavare i panni altrui. A volte, durante la mietitura, al tramonto, quando l’afa del giorno era calata ed il sudore della fatica asciugato, sentiva dentro di sé qualcosa espandersi, ed era invasa  da un calore soave, come un sonno leggero che la portava lontano a fantasticare le cure ed i giochi che le mamme fanno con i piccoli. Allora il desiderio diventava più forte, quasi pressante, forse persino doloroso. E fu in uno di questi momenti che sentì,  improvviso, qualcosa muoversi repentinamente nel suo grembo. Capì. Fu felice. Ed attese. Sapeva che questo suo momento non era stato esclusivo  per lei, che altre donne, allo stesso tempo, per lo stesso desiderio, sarebbero diventate madri di figli che, identici tra loro e con la stessa sorte, si sarebbero chiamati Giufà, Jack , Mattis

Speciali sono i figli del desiderio. Speciali  perché non destinati  a grandi avventure, a diventare eroi ma uomini semplici.

Nacque Giufà un pomeriggio di fine estate, un giorno in cui il sole era mite e le foglie degli alberi già col loro colore si preparavano all’autunno e poi, assolto il loro compito, sarebbero volate via e disperse nel cielo nei giorni di vento. L’accarezzava la mamma e lo vezzeggiava con mille nomignoli, con giochi di sillabe e parole. Uno le era  sembrato più adatto perché una invenzione, una abbreviazione di Giuseppe fatto dal desiderio. Decise:” lo chiamerò Giufà del desiderio”.

Crebbe Giufà nell’affetto della madre e nella totale normalità. Fisicamente  era uguale a tutti gli altri bambini, nati da una madre e da un padre naturali. Pettinato e pulito la madre, come tutte le madri, lo sedeva sull’uscio mentre ella lavorava o sfaccendava in casa. Passarono i giorni,  passarono gli anni, e Giufà come sempre stava seduto sull’uscio, tutto lindo, i capelli scuri pettinati con un boccolo in mezzo tenuto fermo da una forcina, la camicina bianca ed i calzoni corti tenuti su da bretelle di stoffa.

Si appisolava  nei pomeriggi d’estate sotto l’albero di pesche, cresciuto con lui accanto alla casa. Di tanto in tanto una folata di vento staccava  una pesca che a volte cadeva  sulle sue gambe  e lo svegliava. Egli guardava meravigliato il frutto e poi l’albero ed il cielo e grato esclamava: “grazie”. Pensava, come gli avevano raccontato, che  questa fosse la manna che arrivava dal cielo. Così fu che  la mamma, un po ‘ per stupire e per fare contento il figlio, si ingegnò di fargli cadere,  tutte le volte che si appisolava, ora un fico, ora una noce, ora una mela, ora una prugna. Felice Giufà li mangiava.

Gioviale ed ubbidiente conduceva la sua vita, finché un giorno qualcosa lo colpì. Sentiva una confusione in testa, un affollamento,  un cozzar di qualcosa contro qualcos’altro. Scoprì. Erano i pensieri. Diversi pensieri, alcuni complessi altri semplici, con i primi che volevano sopraffare i secondi. Restò perplesso,  quasi sconvolto al vedere che nella sua mente ci fosse qualcosa di così contrastante. Buono per natura, i figli del desiderio non possono che essere buoni, non amò, da subito, i pensieri complessi con la loro enigmatica prepotenza e sopraffazione. Scelse i pensieri semplici che sentiva docili ed innocui. Con essi decise di condurre  la propria vita. Paragonava i pensieri complessi al portar le scarpe e quelli semplici ai piedi nudi. Decise quindi di andar scalzo. Stretta gli stava la scuola, non tanto essa, quanto la costrizione dello stare chiuso per ore in una stanza ad imparare numeri, calcoli sempre più complessi e per giunta con le scarpe ai piedi. “A cosa serviva”? Spesso ora,  con i piedi liberi, marinava la scuola e girava senza meta  per le strade e per i campi. A volte si metteva a sedere e spiava le formiche che, indaffarate, si muovevano frenetiche, altre volte, sdraiato in mezzo alle spighe si perdeva nel cielo.  Seguiva fino a che visibile  il volo degli uccelli e quando poteva saliva sugli alberi a guardare i loro nidi. Aveva così acquisito innumerevoli amici tra gli animali. Ora non sentiva più il bisogno di una sorellina. Con loro faceva lunghi discorsi semplici. Chiedeva loro se avessero mangiato, dove abitassero, se avessero un padre ed una madre o se fossero figli di una madre e di un desiderio. Cercava anche di fare piccoli commerci con loro. Come quella volta che volle vendere  alla lucertola  la tovaglia di lino che la madre gli aveva dato da portare al mercato. Lungo la strada, stanco, si fermò a riposare seduto su un muro di pietre. Da una fessura si affacciò una lucertolina. Muoveva  timida la testa dentro e fuori di essa.  Giufà la guardò affascinato da quella discrezione e le disse: “giardolina, come egli chiamava le lucertole, mi sei simpatica, e sai cosa ti dico, siccome io sono stanco e non voglio più stancarmi andando al mercato, se vuoi ti vendo questa bellissima tovaglia di lino bianco. Ti faccio un prezzo speciale.” La lucertola continuava a tirare dentro e fuori la testa e Giufà : “che fai ti vergogni? Dai esci fuori. Sei indecisa? Facciamo così, io te la lascio, tornerò domani, se non c’è più riterrò che tu l’abbia comprata, ti raccomando però fammi trovare i soldi, non vorrei che la mamma si arrabbiasse”. Posata la tovaglia sul muro, salutò la sua nuova amica e felice tornò a casa.

Ma nel mondo di Giufà non c’erano solo gli uomini con pensieri semplici, vivevano in maggioranza quelli dei pensieri complessi. Passò poco dopo uno di questi che, furtivo, guardandosi intorno per evitare un eventuale padrone, afferrò la tovaglia e messola in una sacca, si allontanò veloce.

Tornò l’indomani Giufà. Si avvicinò al muro  e fu contento di non trovare più la tovaglia. Si disse: ” le è piaciuta e l’ha comprata” e fu ancora più contento. Ma la delusione comparve sul suo volto  quando non vide traccia né dei soldi, né della lucertola. “Così non si fa” esclamò. Poi pensò :”magari è in ritardo, di certo ha avuto da fare”. Aspettò un pò , ma niente e nessuno appariva. Ancora pensò: ” senz’altro con questo afoso pomeriggio si è addormentata. Ore passarono, niente succedeva. Giufà aspettava. “Ora la sveglio ” disse e cominciò a battere con un sasso sulle pietre del muro. Nessuna risposta. “Sono sicuro che la casa è più in basso  e non sente. Sposterò le pietre fino alla sua tana, poi le metterò a posto”. Iniziò a smuovere le pietre, arrivò fino ai piedi del muro. E quale non fu la sua sorpresa quando da un buco spuntò una borsa da cui apparivano luccicanti, a riempirla zeppa, tanti marenghi d’oro. Estasiato Giufà gridò: ” lo sapevo che di te avrei potuto fidarmi, giardolina”. Prese la borsa e la portò a casa. Non si curò né volle sapere che cosa la madre abbia poi fatto dei soldi, anzi dimenticò totalmente tutto.

Continuò Giufà a frequentare  i suoi umili amici e a vivere, uomo dal pensiero semplice, tra uomini dal pensiero complesso.

 

(La favola potrebbe terminare a questo punto ma per chi pensa che non favole esistono, né lieto fine, può continuare a leggere)

Le cose non andarono sempre così. Ci sarebbe stato un momento in cui la sua propensione verso gli altri  e la sua fiducia sarebbero state, per fortuna solo per un momento, mortificate.

Servizievole, amava fare le cose più a puntino di come gliele avessero chieste. Quel giorno portava  al mare a lavare delle interiora di animali, perché poi la mamma le cucinasse. Tempo e cura ci mise, mai però le sembravano pulite. Perplesso continuava a guardare  quei pezzi di carne.  Improvvisamente vide, non  lontana nel mare, una barca con a bordo dei pescatori. Pensò che loro avrebbero potuto aiutarlo. Cominciò a chiamarli. Quelli dapprima  fecero finta di non udire, poi, di malavoglia, accostarono la barca alla riva. A quel punto Giufà riconoscente,  eccitato e felice   chiese loro : ” per favore son ben lavate queste frattaglie?”. Quelli, uomini dal pensiero complesso, non avendo la capacità di capire gli uomini dal pensiero semplice, lo guardarono  con aria di  scherno e superiorità e senza proferir  parola  andarono via.

Sorpreso da quella inaspettata reazione, confuso, raccattò il secchio con le interiora lavate e si avviò verso casa. Sentì  per un attimo che due mondi esistevano, quello suo, abitato da un numero ridotto di persone, e quello   della moltitudine, popolato da meschini e crudeli pensieri complessi. Per fortuna dimenticò presto.

23 Dicembre 2019

Ciro Gallo

Favola per Minerva. Il Ciclope che amò il sole e la musica di Bach.

4 Aprile 2021

Sospinti da Caos e dalla primitiva ferocia delle Forze in esso, Ciclopi e Titani lottarono. Scampato, Polifemo,  per sfuggire alla vendetta, stava nascosto in una caverna, in compagnia di un gregge. Aveva il potere divino di far pascolare  le pecore da sole, che docili tornavano la sera all’ovile. Viveva  con esse  e parlava con le ombre che uscivano dalla sua testa. Con rassegnata tristezza anelava uscire ed ascoltava con nostalgia lo zufolo di quei pastori che, fortunati, potevano andar per i campi, guardar il volo degli uccelli ed odorar il profumo dei fiori. Caro gli era il ricordo di sorella Primavera quando gli consentiva di starsene sdraiato e sentire il tepore dell’erba.

Sperò con l’avvento di Ulisse e dei suoi compagni di sfuggire alla solitudine e di parlare con qualcuno. Si accorse però che, pur se l’idioma era uguale, il linguaggio era diverso. Semplice e sincero il suo, ambiguo e falso quello degli uomini, pieno di piccoli sotterfugi e miseri egoismi. Capì che volevano impossessarsi del suo gregge, lasciandolo così nel più oscuro degli stati, solo e senza scopo. Sarebbe sopravvissuto senza sostentamento alimentare, ma nemmeno  gli dei possono vivere senza compagnia. Lasciò fare, per scoprire a fondo la loro natura. Capiva i loro piccoli trucchi. Finse che il palo conficcatogli nell’occhio da Odisseo lo avesse accecato. Nessun danno,  nessun trauma avrebbe potuto compromettere la sua vista, proiettata nel futuro ed emblema dell’eternità e della sua immortalità.

Si comportò da cieco furioso, chiuse l’antro, non completamente, tanto da permettere agli uomini attaccati al vello delle pecore di uscire indenni. Con senso di ironica tristezza palpò il dorso di esse, lasciando che Odisseo  si beasse del suo piccolo espediente. Li lasciò liberi deluso da questo nuovo incontro.

A lungo stette pensieroso nella grotta.Il buio, ora sì, gli offuscava la vista  ma gli espandeva i pensieri e la contraddizione di essi. Decise che non valeva la pena star chiuso per timore della vendetta degli altri dei. Sfidò.Volle vedere cosa ci fosse oltre l’antro. Non voleva più vedere ombre ma ritornare alla luce. Uscì ed improvviso un disco di fuoco apparve nel cielo e con esso si svegliarono i colori ed i suoni e tutte le creature, le foglie degli alberi luccicarono di un argento che mai aveva veduto, o dimenticato, e l’aria turchina. Si beò. A lungo  camminò senza meta. Sentiva il calore riscaldagli le ossa, liberarlo dall’umido della caverna, i pensieri diventare leggeri. Un senso di vita vera lo invase. Stanco si sdraiò e dormì un sonno di secoli.

Vide ora nel dormiveglia, prima di destarsi,  una fanciulla di nome Minerva, di fattezze gentili, delicate le mani a raccogliere fiori, camminare leggera, quasi a volare, sull’erba. Risaltavano le gocce di rugiada sui piedi, i capelli coprivano il collo e circondavano etereo il viso. Capì che tutto era cambiato che questa era  Natura ed i tempi divenuti diversi. Sentì melodioso venire un suono che ascoltò ed ascoltò. Era una musica, un concerto  d’oboe d’amore. Comprese così cosa fosse importante desiderare, cosa degno d’amore, nonostante l’esperienza degli uomini. Si innamorò di tutto questo e pensò di scambiar la sua immortalità fuggitiva con una vita, con un limite, ma felice.

10 Novembre 2019

Ciro Gallo

Scrivo poesie non faccio il poeta

21 Marzo 2021

Io scrivo poesie
non faccio il poeta.
Non immagini oscure
per descrivere l’oscuro di me.
Chiare ed infantili parole,
non metafore che
nascondono l’inconscio
che pretendiamo cantare.
Io scrivo poesie dell’animo
non faccio il poeta.

1 febbraio 1998

Ciro Gallo

Lavacro

6 Febbraio 2021

L’acqua del pozzo era fresca, dava alla lingua una sensazione frizzante. Dopo essersi dissetate al catino, cercando di immergere solo la bocca, le donne la versavano nel lemmo. Si lavavano dopo la giornata di lavoro. Tutte smanicate fino alle ascelle, le carni delle braccia rosate dal sole lasciavano in alto un biancore sotto i peli. Non usava ancora raderli, almeno la gente del popolo. Si lavavano or l’una or l’altra nello stesso recipiente e con la stessa scaglia di sapone da bucato. Il profumo di esso si mescolava con quello del loro sudore, lasciando poi una fragranza di fresco, di gioventù. Le guardavo ammirato e coinvolto. Credo che sia nato là, e a questo sia dovuto il mio afflato verso di esse  ed il sentire il loro corpo. Mia madre in mezzo ad esse. Mi sorprendevo a baciarle, di tanto in tanto, le braccia in una attrazione che ora la psicanalisi mi dice essere un investimento sessuale. Gioivo della sua presenza e della morbida carne sotto le mie labbra. Se ne accorgeva con stupita complicità. Non ricordo,  nessuno me lo ha raccontato, se mai da neonato le abbia morsicato i capezzoli. L’aggressività verso le donne non è una mia caratteristica, nemmeno negli attimi  della perdita del controllo della passione. Perché nel  momento della fusione si libera, anche se controllata, la violenza, il desiderio di annientamento, di fagocitare?

Mi scruto, cerco, mi interrogo sul mio rapporto con l’altra e non trovo risposte. Mi scruto ancora e mi interrogo, necessario mi è il comunicare. Bramoso della conoscenza.

Interrompo lo scrivere distratto da altro. Forse non reputo importanti le mie parole.

Riprendo.

Cantavano le donne, alcune nascoste tra le foglie ed i rami di fico. Arrampicato in cima al mandorlo ascoltavo il loro canto tutt’uno con quello delle allodole che si libravano,  per lunghi attimi quasi immobili, in alto nel limpido celeste del cielo. Col fischio imitavo il loro verso. Insieme alle piccole foglie, verdi sfumate di giallo, la brezza muoveva i miei pensieri. Qualcuno di essi volava a raggiungere le allodole e mi lasciava come spoglio.

Il sole del mattino annegava giù il paese, che stava indolente, come adagiato sulla riva del mare, nel suo brulicar silenzioso. Passavano sul ponte sporadiche macchine, scivolando lungo la strada, come piccole formiche ritardatarie. Interrompeva lo scorrere del tempo il rintocco del campanile per la funzione delle 9. Refrigerio, all’insorgente calura, trovavano  le poche fedeli, tra le navate e le statue dei santi. Mescolavano il mormorio sommesso delle loro preghiere con discorsi non sempre di chiesa. Aspettavano il suono della campanella che annunciava il prete all’altare. Ammutolivano in attesa.

Ora il caldo  era insopportabile. Tornavano  le donne, sudate, con le braccia segnate dal latte dei fichi, a sedersi al fresco, a consumare il loro appetito con pane ed ulive nere condite con olio ed origano, in una grande insalatiera, insieme a  cetrioli e pomidoro. Qualcuna si addolciva la bocca  con un fico, dopo aver assaporato e spalmato con la lingua sul palato il suo miele.       Li tagliavano in due mezzi i fichi per metterli ad essiccare al sole.

Assordante il frinir delle cicale mi faceva abbassare le palpebre  e penzolar la testa. Cascavo dal sonno nell’afa secca del meriggio. Una patina bianca trasparente di calore e di nuvola velava il cielo.  A basso un cane abbaiava.

Sonnecchiavano ora, sedute su piccole sedie, le spalle appoggiate al muro. Il respiro cadenzato sollevava leggermente il  petto, aumentando l’armonia dei loro corpi.  Niente si muoveva, le foglie del mandorlo  erano  ferme, come dipinte, anche  le cicale silenziose. Passavano così le ore più calde nella più completa immobilità, una stasi della vita.

Lentamente ripigliava il frinire, destando tutti ad un nuovo movimento. I panieri al braccio, scendevano nella campagna a mimetizzarsi di nuovo tra i fichi ed a raccoglierne il frutto, fino all’imbrunire, quando, riempita l’acqua dal pozzo, ripetevano il rituale del lavacro.

Ad Angiolina  ed al ricordo che lei ha della sua mamma ed io della mia.

31 Gennaio 2021

Ciro Gallo.

Risveglio

2 Febbraio 2021

Svegliata ti sei
ancora benevola,
Natura
a mostrarci,
dolce carezza
ai tuoi ospiti,
nel nostro inverno
più tragico,
un annuncio di
Primavera,
gialli i tuoi fiori
di speranza e di augurio
alla nostra sopravvivenza.

1 Febbraio 2021

Ciro Gallo