Fave

5 Agosto 2018

Checché ne dicesse Pitagora le fave secche bollite, condite con olio, sale e peperoncino raccoglievano, intorno ad un tavolo di legno grezzo, di color giallo scuro, mezzo macchiato, i frequentatori delle bettole. Mescevano e bevevano grossi bicchieri di vino rosso per attutire la sete, che il sale aveva provocato, e rinfrescare la bocca scottata  dal pepe. Per imitazione e piacere andavamo noi ragazzi, un pò cresciuti, da Paolo che, chiudendo un occhio, ci faceva entrare in una stanza attigua, piccola, angusta ma calda. Bevevamo da una stessa caraffa ed affondavamo le dita nell’ unico piatto tirandole fuori le fave, unte di olio, tenendole strette perché non scivolasse quel piacere che in bocca diventava sublime e come il desiderio di sesso, mai abbastanza saziante. 

Là portai Janinne. “Je  t’ ai donné mes lèvres ”, così diceva dopo i baci dolci e carnosi   che mi dava, grata della mia giovane età. 

Strano che l’uomo a distanza di tanti anni pensi ad una persona senza che questa lo sappia,  dimentica di qualche avvenimento remoto. Come se mai esso fosse esistito. Chissà se Janine, in un qualsiasi momento della sua vita, si ricorda di me, senza che io ne sappia niente.

Succede di parlar di gente che mai saprà. Persino di qualcuno  che non conosci e che hai per caso incontrato , senza scambiare una parola, solo uno sguardo fugace . Si creano storie senza che questi ne sappia niente. Una sua seconda vita, immaginata, vissuta da un altro.

Caliddu aveva iniziato presto quell’anno a dormire  sulla branda, sul marciapiede davanti alla sua porta. Maggio era ormai caldo. Lento il suo russare si sentiva nella semioscurità dell’alba di via Risorgimento. Sonnacchiosa scendeva la strada come un ruscello, dalla favara fino alla stazione, interrotta solo dalla nazionale. Unica, in alto, la casa di Testonde, non ancora costruite altre.  A distanza, sul prato, la casa di Carmelo Cuccu. Ai miei ricordi ora sembra una specie di gabbia a vetri con una grande balconata. I carretti, le stanghe al cielo, come a riposarsi della fatica del giorno, accompagnavano Caliddu  nel suo sonno. Monotona l’acqua della fontana scendeva costante all’angolo di Pizzaredda. La bottega degli alimentari ancora chiusa. Sbadigliava davanti alla sua cantina don Bettino. Unico completamente sveglio era Peppe. Si alzava prima di tutti, ai primi bagliori. Seduto sulle bolognine di pietra lavica della strada, scalzo, mai portava scarpe durante i mesi caldi, si passava ripetutamente le mani sul viso come a lavarselo e si lisciava i capelli. Di tanto in tanto schioccava la lingua. Era cresciuto Peppe più nel corpo che nella mente, a causa di una encefalite.

Giocavamo con Peppe, canzonandolo in maniera familiare ed affettuosa. Egli, anche se non capiva, sembrava prestarsi al gioco. Nelle mattine in cui, sfaccendato, stava seduto per ore davanti alla porta con le spalle appoggiate al muro, noi intorno, gli chiedevamo : “ Peppe hai fatto colazione?” ed egli con uno sguardo assente al luogo, fisso verso lo spazio, come se parlasse ad altri e non a noi, rispondeva con un tono acuto e scandito:”Ssì”. Cosa hai mangiato la pasta col sugo?” “Ssì”. Gli hai grattato il formaggio o la ricotta?” “Ssì!” 

Di tanto in tanto qualcuno di noi più malizioso gli chiedeva: “Peppe , ti piacciono le donne?” Ed egli con un sorriso largo, come se capisse la celia, rispondeva allegro”Eh, ssi, ssì”

Quell’anno é stato l’anno delle patate. Tutto era in fermento. Sembrava che tutti ci si potesse arricchire seminando patate. Ogni appezzamento di terreno da appena fuori il paese fino ai terreni dell”ERAS era stato coltivat0 a patate. Un esercito di uomini ovunque a scavare. Spitaleri, il sensale, era costantemente in movimento, da un appezzamento di terreno all’altro, contrattava con i contadini, diciamo che come tutti i sensali li imbrogliava. Anche i carrettieri erano impegnati. Carichi i carretti  di gente, la accompagnavano in campagna. Peppe seduto accanto al fratello, che guidava la mula, guardava di qua e di là ed ad ognuno che incontrava faceva cenno con la mano e gli gridava: “Ah!’ , come a dire , guarda anch’io  guido il carretto.

Eccitato dalla presenza  di tutta quella gente, quel giorno,  aveva  voluto restare  in campagna anche egli ad “aiutare”. Stancatosi dopo qualche ora, col mozzicone di sigaretta che portava spento sempre in bocca si era diretto penzoloni verso la parte del campo coltivato a fave. Donne si erano spostate lì in mezzo,  raccoglievano quelle più grosse, con i baccelli più grandi e succosi, che avrebbero mangiato col pane, la cipolla e la ricotta salata a mezzodì. Tutte avanti, ultima e discosta, agli inizi del campo stava Maria. 

Qualcosa di speciale aveva Maria, una sensualità attraente, emanava come un ferormone ammaliante, nonostante  i segni della  paralisi facciale che l’aveva colpita da giovinetta. Gli uomini le gironzolavano costantemente intorno.

Maria é stata il delirio della zia Angelina che nei suoi attacchi inveiva contro  il cognato, a suo dire membro della mano nera, ed accusava il marito di essere il di lei amante. E forse qualcosa di vero intuiva. Nenè di fronte a Maria sembrava inebetito e come un innamorato remissivo.

Peppe, appoggiato al recinto di canne che separava le piante di fave dalle altre colture, giocava con i piedi nudi con l’erba. Guardava fisso Maria che, china, raccoglieva le fave. Allora non era tanto in uso portar biancheria. La veste piegata davanti a mo’ di grembiule, per mettere dentro il raccolto,  lasciava libere le cosce  dietro. Peppe guardava e si avvicinava lentamente. Lo sguardo fisso, il volto rosso, la fronte piena di sudore. Silenzioso si avvicinava, fino a che, giunto in stretta prossimità di Maria, tutto sbottonato davanti le si gettò addosso, curva così come era,tenendola ferma, afferrandola per il seno. Alle grida di questa che cercava di divincolarsi egli, che non era capace di dire di solito che qualche monosillabo,  con faccia pietosa e voce implorante la pregava:” aspetta, aspetta ancora n’anticchia!”( aspetta, aspetta per favore ancora, ancora per un pò).

I caliatura, disposti  tutti intorno al piano prospiciente la casa, sarebbero serviti per essiccare i fichi. Intanto le cannizze erano stese al sole ripiene di fave, ormai secche. Le donne  ora sedute, nel tardo pomeriggio, si godevano il fresco. Il mare lontano, di un celeste sfumato, si riempiva delle prime barche che uscivano per la pesca della sera. La montagna verde  e solitaria sembrava guardare noi ragazzi, stanchi del giorno, seduti sulle scale e sul ballatoio. Deponevano su un ripiano basso, una specie di trespolo, formato di legni fissati al terreno e legati tra loro, la cannizza, e tutte intorno sgusciavano le fave. Accompagnavano il crepitio delle scorze secche con i loro discorsi o con qualche canto sommesso. Sarebbero servite le fave per l’inverno e per la semina dell’anno successivo. Le  bucce secche per riempire i pagliericci da usare d’autunno, durante la raccolta delle ulive. Intanto venivano ammucchiate in una stanza.

Quell’anno il raccolto di fave era stato molto abbondante. Uno spettacolo era stato vedere la loro fioritura lungo tutto il pendio accanto alle spighe dell’orzo. La stanza a pian terreno, ora che non ospitava più i coloni, era piena di scorze. Un mucchio  che arrivava fino al soffitto. Grande divertimento era il nostro salire in cima e sprofondare, lasciandosi scivolare fin sul pavimento. Ci accaloravamo, ci azzuffavamo, incuranti di qualche pomfo  di orticaria  che quel seccume  ci provocava. Nel gioco bastava solo una fugace frizione per far scomparire il prurito. Ragazzi e ragazze facevamo capriole su quel mucchio crepitante di scorze.  Scamiciati noi, un poco discinte loro. 

Là fu che per la prima volta ebbi conoscenza del sesso. Lina mi stava vicina, sudata,  gli occhi vivaci, la gonna rialzata sulle gambe. Un improvviso calore invase il mio corpo. Sconcertato, confuso dall’attrazione che sentivo verso di lei, non riuscivo a comprendere quella indefinibile, piacevole e pudica sensazione che ora sentivo. Anch’ella sembrava  colpita da qualcosa di strano. Divenne immediatamente muta, rossa in viso e scese dal cumulo di scorze.

Increduli, vergognosi, stavamo ora lontani l’uno dall’altra, senza capirne il motivo. Nonostante tutto una dolcezza percepivamo nei nostri corpi. Benevolmente ci guardavamo senza sfiorarci. Tranne una volta che, spinti da una curiosità attrattiva, scoprimmo le nostre differenze.

Per quella curiosità infantile  e per le paure, che i sotterfugi dei grandi ci avevano  a nostra insaputa trasmesso, sentimmo poi un inspiegabile senso di colpa, di cui non capivamo l’origine e di cui non avevamo responsabilità. Si ingigantivano quei nostri innocenti atti che l’istinto a conoscere e la diversità avevano provocato e soprattutto una apprensione nuova si era posata su quel pudico piacere corporeo,  non ancora elaborato  e quindi esposto a tutte le interpretazioni. Purtroppo i canoni di queste  erano quelli oscuri degli adulti, che rendevano peccaminoso tutto ciò che riguardava il corpo. Mai considerare  il proprio, né interessarsi   alla diversità ed al piacere della scoperta  del corpo dell’altro sesso. Tutto ero sporco, di ciò avremmo dovuto nettarci, pulirci e tornare limpidi e puri. Così fu che Lina da allora cominciò costantemente a lavarsi le mani ed aver ancora oggi in età matura la stessa fobia.

Pippo Fiore  si era seduto sempre all’ultimo banco. Schivo , ma con un’aria di superiorità, che l’aver un anno in più gli dava su di noi, accentuata dalla barba che si lasciava crescere per coprire una eterna acne facciale. Appassionato di storia, già dopo il primo mese di scuola  aveva letto e riletto tutto il Saitta, mentre noi arrancavamo ancora ai primi capitoli. Non si capiva che cosa lo interessasse di essa. Raramente entrava in discussioni di politica contemporanea. Era certo che, data la sua storia, avesse idee di sinistra. Un comunista in mezzo ad un nugolo di figli di democristiani e non pensanti. 

Di lui apprezzavo la pacatezza,  la sua silenziosa maturità ed una intelligenza senza ansia. Anche se  egli, come tutti, qualcosa di rimosso doveva pur avere. Nel suo distacco da noi  ammirava comunque la mia brillantezza intellettuale. Agli antipodi, io al primo , lui all’ultimo banco , per poter fare ciò che ci aggradava, perché non visto lui , perché supposto non farlo io.

Era venuto Pippo da Longi. Mi aveva invitato  una sera, dopo il liceo, ad una festa in una piazza indimenticabile, a picco nel cielo, in mezzo alle stelle, al suo paese.

Si era trasferito con la famiglia, tre fratelli che studiavano al liceo, in campagna a Torre Candele. Andavamo di tanto intanto a trovarlo. Era, l’edificio in cui viveva, una di quelle case coloniche a due piani dove, un tempo, al piano superiore abitava il padrone, quando veniva alla marina per i bagni estivi e sotto i coloni o i fittavoli. 

Le stanze al pian terreno avevano una grande cucina con un largo tavolo quadrato, pieno sempre di libri e quaderni.

Pippo amava  la campagna e tutte le volte, specie in primavera, ci portava a veder l’orto che egli ha continuato a curare , per anni, anche quando malato. L’acqua scorreva nei solchi che abbeveravano gli ortaggi, i piselli e le fave in fiore, l’albero con le nespole rosse e mature.

Aveva Pippo,  per gli spostamenti suoi e dei fratelli, una vecchia 600, di color crema smunto. Era strana quella macchina, tirava bene ma, superati gli 80 km orari, faceva partire spontaneamente il tergicristallo. Spesso venivano con Jho a studiare da me. 

In quella giornata di maggio, il tepore del sole, l’aria tersa, i prati di un verde brillante accentuavano  l’irrequietezza di noi giovani studenti. Liberi dalla prigionia di una stanza, presi  i libri, saliti in macchina, ci dirigemmo verso il Piano Cottone, alla fine del paese. Là agli inizi della salita, quasi attaccato alla strada,  trovammo un campo enorme di fave, alcune già mature da cogliere, altre ancora in fiore, entrammo e ci sedemmo in uno spazio verde accanto. Sospirammo di una quiete ritrovata e continuammo a leggere Orazio, ora con trasporto. 

Guardavo, immerso in quella natura, gli uccelli pigri volteggiare nel cielo. Distratto alla lettura, mi abbandonavo con essi nel cielo dei miei pensieri. Quasi a cadenza mi destava, inconsapevole, il fruscio dei cipressi del cimitero sottostante, mossi da folate di vento tiepido. Mi richiamava alla realtà dell’uomo.

Giace ora Pippo, in quel cimitero, morto in maniera prematura per un cancro allo stomaco. Il prato fiorito di fave non esiste più, gli aveva solo fatto ghirlanda durante quel giorno della sua giovane vita.

 

A Paolo Salanitro al quale restammo da pagare un piatto di fave  ed una caraffa di vino

A Peppe e a tutti quelli cresciuti solo nel corpo.

A Lina, perchè incolpevole causa della sua fobia

A Peppisciuri, del quale non ho fatto in tempo a vendicarmi, per  un tiro mancino che mi  aveva tirato al liceo.

Ciro Gallo