Un pezzo di carne.

3 Marzo 2016

Tu non hai ricordo dei macellai di paese che ti buttavano là, sul bancone di marmo, il pezzo di carne, vivo, appena tagliato, ancora sanguinante, avvolto in una carta ruvida e robusta di color giallo. Sembrava una azione volgare, quasi irrispettosa.

Piddizzaro aveva la bottega appena sotto la portella. La scritta  “Macelleria” era in bianco, disegnata con un pennello, tutta irregolare, appesa sopra l’arco dell’uscio. La porticina, bassa, di color verde smunto e scrostata, con le grate di ferro al piccolo spioncino quadrato,  che chiudeva uno scalone di marmo grigio, non perfettamente levigato, aveva un aspetto non dissimile dai vecchi, con lo scialle sulle spalle e la coppola calcata sulla testa, seduti sulla panchina appena discosta. Guardavano un altrove, alcuni con il mento appoggiato alle mani che reggevano il bastone, ritto davanti a loro.

La stanza era angusta, buia nonostante il finestrone sempre aperto. Due bancali di marmo messi a squadra. In uno stavano buttati, corpi morti, i quarti di bue, da poco macellati. Sparsi i timbri di inchiostro appena apposti dal veterinario su quella carne. Nell’altro la bilancia, i coltelli affilati e rotoli di salsiccia fresca. Non esisteva la cassa. Il denaro passava direttamente di mano in mano in una specie di baratto.

Nei pomeriggi d’estate, il ronzio delle mosche  si mescolava all’odore dolciastro della carne. Stranamente non si posavano su di essa, giravano indolenti le mosche, non curanti, attorno alla carta moschicida che, attaccata alle travi, pendeva in alto in mezzo alla stanza. Due sedie di paglia stazionavano ai lati della porta. Al fresco, seduti, sonnecchiavano il padrone ed il garzone. Poche macchine passavano. Qualcuno a cavallo di una mula tornava prima dalla campagna. Rimbombava ritmicamente il ferro degli zoccoli sulle mattonelle della strada.

Frareu aveva quasi 50 anni, di altezza media, una fronte resa più ampia dalla calvizie. Due ciuffi grigi e ricci si inerpicavano in alto dalle tempie. La barba costantemente non rasata, di almeno due giorni, gli increspava e scuriva il viso. La voce rauca, agiva con i clienti in maniera affabile. Parlava e tagliava. A volte, con fare meccanico, infilava in bocca, con un colpo secco,  un pezzettino di carne cruda. Il grembiule bianco qua e là macchiato di sangue, uno strappo, un buco all’altezza del petto. Slacciato lasciava libera una pancia prominenente, da uomo di mezza età. Tra tutti preferiva indossare prima sempre quello. Eppure Bettina gliene preparava 3 o 4 per volta, lindi,  bianchi e stirati come i camici di un medico.

Con i calzoni corti e le calze lunghe di cotone, tenute sopra il ginocchio da stringhe di elastico, mi recavo al convento. Passavo di corsa ogni giorno davanti alla macelleria, la carne appesa ai ganci esposta fuori, il pavimento stizzato di sangue. Correvo veloce a scuola.

Non so cosa abbia mai imparato. Solo negli anni dell’adolescenza mi é nato l’interesse per il sapere. Lunghi pomeriggi d’estate passavo a leggere. Sognavo. Mai avrei pensato di diventare medico e di essere coinvolto così profondamente da questa professione, io che davanti ai morti schermavo lo sguardo con le mani.

Rita si consumava, debole,  appena percettibile la sua voce. Gli occhi conservavano solo poca della loro brillantezza, silenziosi, imploranti come quelli di un agnello che percepisce di morire. Letteralmente si rinsecchiva, perdeva liquidi come se avesse il colera.

A lungo stette in ospedale. Senza una diagnosi di natura, avendo solo individuato l’organo malato, si era ristabilita. Aveva ripreso la sua avvenenza ed era tornata a lavorare tra i suoi profumi.

Ora io non lavoro piú. Ho capito,  in questi ultimi anni, quanto il mestiere di medico debba essere totalizzante, quanto difficoltoso sia affrontare la patologia e soprattutto comprendere chi ne é affetto. Mi chiedo a volte se io abbia commesso degli errori e se abbia mai deluso le aspettative dei pazienti. Resto sconcertato quando non riesco a rispondere.

Studio continuamente, per lunghe ore del giorno ascolto lezioni di medicina. Mi rendo conto quanto sia cambiata e quanto l’approccio ad essa debba seguire la sua evoluzione. Mi sorprende essere stato giudicato un bravo medico e mi ispirano un misto di tenerezza ed apprensione quei colleghi che continuano ad operare senza accorgersene, senza farsi domande.

Ora non mi capita spesso di andare in ospedale. Ci vado quasi furtivo, come imbarazzato. Così é stato uno di questi pomeriggi. Mi dirigevo dall’ingresso ad uno dei nuovi padiglioni. Andavo a trovare un mio amico d’infanzia lì   degente.

Perso nei miei pensieri, camminavo non vedendo nessuno. Flebile una voce mi scuote, mi chiama per nome. Guardo e non riconosco. Piccola si avvicina una figura,  magra ed emaciata, lenta ed indecisa nei movimenti. Un viso senza trucco, un berretto a coprire radi capelli e metà fronte, uno scialle nero sulle spalle a proteggerla. Era Rita. Tornava da una seduta di chemioterapia. Con gli occhi bassi e con un appena percettibile sussurro riesce a stento ad articolare queste poche parole : “ Ho un tumore del pancreas , sono stata operata”. Sembra scusarsi, come se fosse colpevole di una sì grave malattia e quindi responsabile di non aver saputo proteggere la sua giovane età.

Ansia ed apprensione crea questo nuovo “flagello.” Reticenti, si fatica a pronunciarne il nome. Persino i medici cercano di fuggirne il pensiero. Delusi per la scarsa prevenzione ed impotenti davanti agli esiti, affidano tutto ad una tecnologia sempre piú sofisticata.  É la macchina che fa la diagnosi, che emette verdetti, essi solo intermediari lontani, anche se non assenti. Il tumore é buttato là, come il pezzo di carne sbattuto dal macellaio sul bancato, più o meno grande, più o meno aggressivo, più o meno metastatico. “ Avvolto”, “impacchettato” in un dischetto, in una formula, é spedito all’oncologo che lo vidima e lo “affida” alla chirurgia, alla chemioterapia. Ed il paziente? Lunghe peregrinazioni da casa al luogo di cura, estenuanti attese. Prigioniero della solitudine, dell’incertezza, alla ricerca di uno sguardo, di vere parole, non crude, nè false o reticenti. Catturato dallo spasmo della speranza, dalla sua volatilità. La chiusura del petto dopo un fugace attimo di ottimismo. Occhi che non riescono a penetrare il buio. La nausea, le fiacche in bocca, il correre in bagno, l’astenia, la confusione mentale. Il dialogo delegato ad un foglio di istruzioni.

 

“ Ma a chi mi rivolgo? A chi per avere una parola adatta? E ritorno per il successivo ciclo. Ancora  dottori diversi che a malapena mi conoscono, che cercano di liberarsi velocemente dell’angoscioso carico di una morte certa : “progression free survival, overall survival” scandiscono solo il suo tempo. Sufficiente quando si è vissuto a lungo, ma quando giovani?

Impenetrabili, mascheratamente impassibili, a volte quasi crudeli fino a farti piangere, fuggono davanti a te. Fuggono la paura, la esorcizzano con i protocolli: un pensiero rigido. Risposte a monosillabi o artifici verbali, che tradiscono una inconsapevole premura, ed assicurazioni costruite. Eppure, con la paura dell’abbandono, si è riconoscenti a questo insicuro appiglio, una minima apertura verso il futuro. Si cerca di espandere questi momenti, di interpretare persino i movimenti di colui a cui sono affidati i tuoi giorni. Ma a casa, nelle lunghe giornate e quando di notte ci si sveglia in preda ad un incubo o dopo un sogno illudente, chi mi da coraggio , chi mi è vicino?”

Passo ancora, dopo tanto tempo, cammino verso il convento. La strada è rimasta uguale, le stesse mattonelle, la panchina è sempre là, ora però vuota, nessun rimbombar di zoccoli di mula. La macelleria non esiste più, la porticina chiusa ancora piú scrostata. Frareu è morto, anch’egli per un pezzo di carne.

 

Milano 12-26 febbraio 2016

A Rita C. perché sua è questa storia.

Ad Angelo e Miro perché mi sono di supporto nel mio tentativo di essere d’aiuto.

Ciro Gallo